Parole da lontano
Giorgio Placatti
Piacere, sono una panchina.
Detto così, è un po' poco. Panchine ce ne sono tante,
di tutti i tipi. Voi direte, ma come fai a saperlo, non ti muovi mai?!?
Beh, scusate, ma volete che nell'era di Internet noi panchine non abbiamo
trovato il modo di comunicare?
Comunque io ho un'identità precisa, anche se per un periodo ne
ho dubitato, come dirò più avanti. Intanto sono di legno,
di abete per la precisione, e fatta più o meno a mano. Poi non
sto in giardino o in un parco di città, io lavoro su un sentiero.
Niente di difficile, è un sentiero per famiglie con bambini.
Infatti ne passano molte, assieme ad anziani, comitive più o
meno allegre, coppiette più o meno furtive. Di rado passano anche
maleducati che si divertono a scrivere sulle mie assi e su quelle delle
mie colleghe.
E' un bel lavoro, che dà soddisfazione. Certo sei sempre all'aperto
ma il freddo non mi spaventa, molto peggio il fuoco. Non è nemmeno
difficile, basta aspettare i viandanti stanchi e…oplà,
lui o lei si siedono e si sentono meglio. Poi c'è lo spettacolo
della natura, i caprioli, gli uccelli. Insomma, non ci si annoia mai.
Nonostante ciò, come vi dicevo, c'è stato un periodo nel
quale ho dubitato di me stessa. Appena installata mi sono trovata vicino
a una collega molto, molto vecchia e ormai prossima alla pensione. Diventammo
amiche e lei cominciò a parlarmi di un suo affezionato cliente
di tantissimo tempo addietro.
Veniva da nord, da oltre le montagne, in vacanza. Passava tutti i giorni,
prima in un senso e poi nell'altro. Spesso era in compagnia ma comunque
parlava, anche da solo. Fin qui niente di che, lo fanno in tanti. Era
quello che diceva che era speciale: parlava di psiche, di nevrosi, di
conscio e inconscio, soprattutto di identità e di crisi della
medesima. Questo per anni, tutte le estati e sedendosi sempre sulla
stessa panchina, la mia amica.
Non è che lei capisse tutto, del resto nemmeno io. Però
qualcosa le rimase dentro e si trasmise a me.
Cominciai a chiedermi qual era il mio posto nella vita, e già
questo per una panchina è molto. Poi mi chiesi se ero davvero
una panchina e perché. Poi pensai: perché panchina, perché
non panchino? Chi lo dice che sono una femmina? Insomma, crisi totale
e depressione nera.
Secondo me i passanti se ne accorgevano. Li sentivo dire che c'erano
posti migliori, che l'atmosfera era un po' cupa. Passavano oltre, e
in fretta. Si fermavano solo i cani, ma per motivi poco onorevoli.
Poi, poi…poi basta. Un bel giorno, quando la mia amica non c'era
già più, di colpo mi sentii meglio. Femmina? Ma naturalmente,
chi altri poteva accogliere così semplicemente il primo che passava
senza chiedere nulla in cambio? Panchina? Ma era ovvio, ero nata per
questo e a ciò dovevo tutto quello che ero riuscita a fare nella
vita. Il mio posto? Ma per mandarmi via devono schiodarmi, qui è
un paradiso.
Ho ritrovato me stessa, ma continuo a parlare alle colleghe più
giovani della vecchia panchina amica mia e di quel buffo professore
austriaco. Forse quelle parole mi hanno fatto bene, magari non subito.
Comunque non potrei scordarli neanche se volessi. Alla fine il professore,
ahimè solo lui, è diventato famoso, tanto che qui hanno
chiamato il sentiero Freudpromenade cioè Passeggiata Freud, dal
suo cognome. Lui amava questi luoghi, come me. Forse anche per questo
ci siamo parlati, anche se per mezzo di una vecchia panchina.