Come formiche
Annapaola Paparo
Presi un biscotto alla menta dalla scatola di latta, sulla mensola.
Allungai il braccio ma non riuscii a non strofinarlo contro il collo
di Clelia.
«Scusa», le dissi.
«Di niente», rispose.
Mi accucciai in un angolo per non disturbare.
Tuttavia, ero davanti al frigorifero e Angela voleva qualcosa da bere.
Dovetti spostarmi di nuovo per farglielo aprire.
«Scusa», mi disse.
«Di niente», risposi.
Il pavimento di finto parquet era lercio. Clelia iniziò a spazzarlo
con forza.
Angela, per farla passare, si spalmò con la schiena contro gli
scaffali della libreria. Io saltellai, accosciata, di nuovo verso il
frigo.
Angela aveva un corpo atletico e riusciva a modellarlo all’occorrenza,
a seconda degli spazi. Flettendo il busto, piegando le gambe, facendosi
piccola piccola. Come quei contorsionisti che viaggiano in valigia.
Io la imitavo con risultati penosi.
Clelia impugnava il manico della scopa con rabbia. Forse un po’
era colpa mia. Infatti, mangiando il risicato biscotto alla menta stavo
solo aggiungendo briciole alle altre briciole sparse per terra.
Clelia non tentò di evitarmi, di deviare anche di poco la traiettoria
della scopa. Accolsi quindi il suo gomito nella base del mio orecchio
destro con rassegnazione.
«Scusa…», farfugliò.
Non dissi niente. Mi aveva fatto male.
«Non passarmi la scopa sui piedi, altrimenti non mi sposo! »,
urlò Angela.
«Che stupide superstizioni hai portato dal paese», osservò
Clelia.
Sentivo la tensione nell’aria. Sarebbe stato molto liberatorio
litigare, ma decisamente non c’era spazio per le liti. Una di
noi ci avrebbe rimesso una spalla, oppure un piede, o anche un occhio.
Finalmente Clelia ripose quella dannata scopa nell’angolino tra
il frigo e i fornelli.
Angela si mosse per fare un caffè. Ma io ero ancora inginocchiata
e avvinghiata al frigo. Clelia si ritrovò bloccata tra me e l’altra
che trafficava ai fornelli. Mi scavalcò senza battere ciglio.
«Passa pure sul mio corpo - pensai - tanto la pagherai. Magari
vado a fare pipì proprio mentre ti stai lavando i denti. E ti
costringo con il lavandino nel fianco».
Mi alzai e in un passo fui alla finestra. Era una domenica pomeriggio
come le altre. In verità, era un pomeriggio come gli altri. La
gente era tutta per strada. In passato occorreva un’occasione
speciale, come una processione, un concerto, una festa pubblica, per
vedere così tanti individui tutti insieme.
Come le formiche che abbandonano in gruppo i formicai in cerca di cibo,
adesso tutti abbandonavano i propri cubicoli in cerca di una boccata
d’aria.
Mentre rimuginavo guardando giù, Angela versava il caffè
alla mia destra e Clelia, alla mia sinistra, raddrizzava un quadro perennemente
storto. Ai miei fianchi come due fedeli Arcangeli. A sgomitarmi nelle
costole.
Ma loro non si scusarono, né io mi lamentai. A una certa ora
del giorno erano inutile scusarsi quanto arrabbiarsi.
«Non avevi detto che oggi saresti uscita?» mi chiese Clelia
acidamente.
Lei non perdeva mai una virgola di quello gli altri dicevano.
Clelia mi irritava anche perché non riusciva mai a stare ferma.
Come adesso, che dal quadretto si era spostata al lato opposto della
stanza per innaffiare la piantina grassa. Così stavamo insopportabilmente
sedere contro sedere.
«Ho cambiato idea. In giro c’è troppa gente. Ho bisogno
dei miei spazi, io».
Fu presto notte, e dovemmo prepararci.
Aprimmo il letto, un modello moderno e ultra piatto che da ripiegato
occupava meno spazio di un asse da stiro. Era l’ultima notte che
mi toccava dormire al centro. Poi sarebbe stato il turno di Clelia.
Spegnemmo la luce in silenzio.
«Domani cerchiamo un appartamento più grande».
Sussurrò Angela affondando il mento nel mio collo.
Annuii. Ci stavo pensando anch’io.
«Gli appartamenti grandi non esistono più», si intromise
Clelia, grattandosi un braccio.
«Sono stati tutti suddivisi in appartamenti piccoli – aggiunse
- siamo in troppi. In questo mondo non c’è più abbastanza
spazio per tutti».
Clelia era una persona pratica. Proprio per questo rompeva spesso le
uova nel paniere.