PREMIO LETTERARIO PANCHINA

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EDIZIONE 2011
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Lei là non c’era
Rita Mazzon


Un tempo correvo veloce sulla trasparenza di un’idea, dove lo stupore dell’infanzia mi donava la sua gioia. Oggi, anche se ricopro il mio corpo sotto un telo bianco, non esiste più l’ingenuità, la purezza.
Mio padre mi inculcava i doveri. «Studia. Ascolta chi sa più di te». Io ho chinato il capo.
Avrei voluto riemergere dalla mia angoscia. Mi sono arrestato. Di notte i fantasmi mi venivano a cercare incatramando le mie ore con ansie appiccicose, nonostante incollassi le palpebre per non vedere. Chiedevo che venisse presto il domani per ritrovare la luce. Troppo abbaglianti però erano i giorni per sopirmi in un sonno senza incubi.
«Che hai?» chiedeva mia madre. Io rispondevo: «Niente». E ripetevo a mente quello che mi diceva mio padre. In una prigione di divieti, di occhiate avevo paura di sbagliare.
Mi ripetevo: «Non ho fatto niente». Il niente ha tentacoli suadenti. Ti prende. Ti stringe. Dove puoi scappare?
Avevo chiesto alla mamma se mio padre mi volesse veramente bene. Lei mi aveva accarezzato il capo, come sanno fare solamente le madri. Mi aveva risposto che i caratteri sono differenti, ma che in ciascuno c’è sempre qualcosa di buono. Mentre guardava la parete bianca, i suoi occhi erano velati da una tenue ombra.
Mia madre devota praticante andava in chiesa. Così con quella voglia di non deludere nessuno, ero diventato chierichetto.
Le tuniche bianche erano intorno all’altare. Le luci delle candele tremavano, creando ombre oblunghe sui muri. Giocavano a rincorrersi tra le colonne, pregne di nostalgie infantili.
Le voci del coro si innalzavano. Con una pretesa improba avrebbero voluto squarciare il cielo dipinto di azzurro della volta per raggiungere l’infinito. Si ripiegavano bensì in un’evoluzione circolare che ritornava sui nostri spartiti trapuntati di note scure.
Trafitto da quelle onde sonore lasciavo agli altri la possibilità di cantare. Io aprivo la bocca, ma non emettevo suono. Dondolavo stancamente cercando di seguire l’armonia, che non sentivo. Il mio corpo si sradicava dal pavimento freddo per poi proiettarsi e stemperarsi sui muri freddi.
Odore di fiori recisi nei grandi vasi dell’altare. Odore di ceri umidi, dove gocciolava la mia sofferenza. Per una lacrima rimasta nell’occhio, sospesa, vedevo sfocarsi la mia vita.
Dove stava la mia purezza? In quella tunica immacolata che mia madre mi lavava, lasciando la traccia del suo profumo? Toccavo e ritoccavo l’orlo della tela per rinfrancarmi nel suo abbraccio.
Intanto il sacerdote spiegava ai fedeli parabole che davano l’esempio di vite straordinarie.
Avevo chiesto l’assoluzione al buon Dio. Avevo bisogno semplicemente di una carezza paterna.
Quando la Messa però finiva, mi prendeva un convulso strano. Spegnevo il grande cero e il fumo mi penetrava nelle narici. Gli occhi bruciavano come se una serpe grigia mi avesse iniettato il suo veleno. Tutto era scuro, solo la luce, che proveniva dall’esterno, riusciva a forare l’ombra che si incuneava tra le ultime panche. Rimanevo ad annusare il fumo intensamente, con la volontà assurda di smaterializzarmi anch’io. Potevo fuggire. Il portone era aperto, ma non l’ho mai fatto. Mi sedevo dietro l’altare. Aspettavo.
Sentivo che lui mi osservava. In quello sguardo dato da lontano, mi ricordavo il suo respiro, sempre più vicino, che sussurrava parole silenziose fatte di carezze e toccamenti.
Quando tutti se n’erano andati, la sua mano mi accarezzava i capelli, mi diceva: «Vieni angelo mio!» Io lo seguivo.
Avrei dovuto dibattermi da quel suo ansimare che si invischiava sulla mia pelle?
La mia anima là non c’era. Correva nei prati, a piedi nudi. Si lasciava sferzare dall’erba. Faticava nella corsa per raggiungere la collina. La fronte era madida di sudore. Lei correva, correva… Volava. In un quadrato di cielo lei respirava libera. Nella convinzione assoluta di trovarsi altrove, non si sentiva più reclusa. Aveva spazi infiniti in cui proiettare tutta la sua forza. Non provava più nulla, perché lei là non c’era.

 


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