PREMIO LETTERARIO PANCHINA

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EDIZIONE 2011
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Spighe
Maria Luisa Giannasi


Sotto un sole così brillante da non poter alzare gli occhi senza rimanere abbacinati, la bambina dodicenne, vestita di un abito smesso di sua madre, male adattato, la schiena piegata, teneva gli occhi fissi in terra per non perdere neanche una spiga lasciata indietro dai mietitori.
Aveva un sacchetto di tela legato attorno al collo da una fettuccia e stava “spigolando”. Faceva quel duro lavoro senza prendersi un attimo di respiro, seguendo le file di stoppie che le graffiavano le gambe, incurante del sangue che le colava dai graffi e delle punture degli insetti, perché il risultato sarebbe stato il pane; il buon pane che in città, da dove lei veniva, era ormai introvabile, a meno che non si volesse chiamare pane quella cosa scura fatta di strane farine vegetali, dall’ancor più strano sapore, che veniva distribuito dietro presentazione della tessera annonaria, nella misura di centocinquanta grammi a persona.
Lei, aveva sempre fame e molte volte il pane se lo sognava di notte. Viveva sola con la madre da quasi quattro anni perché suo padre era stato richiamato alle armi, aveva fatto la guerra in Grecia, poi l’avevano trasferito in Albania e infine era stato deportato in Germania, mentre loro due in città, se la cavavano alla meno peggio con il magro sussidio che veniva dato dallo Stato e con i portafogli che sua madre confezionava per una ditta di “cinesi”. Anche la bambina aiutava in quel lavoro, nel pomeriggio, al ritorno da scuola e ciò le pesava perché le piaceva molto studiare e avrebbe preferito studiare piuttosto che spalmare colla su pezzetti di fintapelle.
Poi, cominciarono i bombardamenti e madre e figlia si rifugiarono nel paese dove era nato il padre. Vivevano in una sola stanza, con i pochi mobili che si erano portate dietro tutti ammucchiati; la madre andava a lavorare nei campi con i contadini e veniva pagata in natura: un pezzo di pancetta o di salame, qualche uovo, un po’ di farina; insomma la vita era grama, ma si pativa meno la fame che in città. Venne il tempo della mietitura e fu allora che la bambina sentì parlare degli spigolatori: gente che andava nei campi, dove il grano era stato già mietuto, a raccogliere le spighe restate a terra. Così lei intravide la possibilità di procurarsi la materia prima per fare il pane. Si confezionò lei stessa un sacchetto di tela per riporvi le spighe e, via per i campi a raccogliere quei meravigliosi contenitori di chicchi di grano.
Si può affermare che i suoi sforzi furono premiati: raccolse un grande sacco di spighe e quando lo portò nell’aia di un contadino amico dove si trebbiava, i trebbiatori forse si commossero perché rovesciarono nel suo sacco anche il contenuto del telone che ricopriva il fondo del carro che aveva trasportato i covoni e lei si ritrovò con parecchi chili di grano trebbiato che, a suo tempo, fu trasformato in farina e poi in pane. Da quel momento, lei e sua madre, non patirono più la fame perché, come diceva sua madre, almeno il pane c’era, magari solo pane e radicchi, ma tanto bastava alla sua fame giovanile.
Quella bambina è nata il due aprile dell’anno millenovecentotrentuno e ciò vuol dire che ha passato la sua infanzia e l’inizio dell’adolescenza in tempo di guerra e ciò ha influito su tutta la sua vita: il terrore dei bombardamenti o delle rappresaglie tedesche, la fame patita in città, la scuola abbandonata e mai più ripresa, i racconti del padre tornato sì vivo da un lager tedesco, ma con i nervi a pezzi, hanno profondamente inciso nel suo carattere e in tutta la sua vita, tanto che ancora oggi, per sentirsi sicura, deve avere dispensa e frigo sempre pieni; inoltre prova una profonda avversione per ogni tipo di guerra e ogni forma di violenza.
Ma forse le è restato anche qualche cosa di positivo: la forza di affrontare la vita a testa bassa, giorno per giorno, senza alzare gli occhi, ancora in cerca di spighe che l’aiutino ad arrivare in fondo con dignità.

 


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