Spighe
Maria Luisa Giannasi
Sotto un sole così brillante da non poter alzare gli occhi senza
rimanere abbacinati, la bambina dodicenne, vestita di un abito smesso
di sua madre, male adattato, la schiena piegata, teneva gli occhi fissi
in terra per non perdere neanche una spiga lasciata indietro dai mietitori.
Aveva un sacchetto di tela legato attorno al collo da una fettuccia
e stava “spigolando”. Faceva quel duro lavoro senza prendersi
un attimo di respiro, seguendo le file di stoppie che le graffiavano
le gambe, incurante del sangue che le colava dai graffi e delle punture
degli insetti, perché il risultato sarebbe stato il pane; il
buon pane che in città, da dove lei veniva, era ormai introvabile,
a meno che non si volesse chiamare pane quella cosa scura fatta di strane
farine vegetali, dall’ancor più strano sapore, che veniva
distribuito dietro presentazione della tessera annonaria, nella misura
di centocinquanta grammi a persona.
Lei, aveva sempre fame e molte volte il pane se lo sognava di notte.
Viveva sola con la madre da quasi quattro anni perché suo padre
era stato richiamato alle armi, aveva fatto la guerra in Grecia, poi
l’avevano trasferito in Albania e infine era stato deportato in
Germania, mentre loro due in città, se la cavavano alla meno
peggio con il magro sussidio che veniva dato dallo Stato e con i portafogli
che sua madre confezionava per una ditta di “cinesi”. Anche
la bambina aiutava in quel lavoro, nel pomeriggio, al ritorno da scuola
e ciò le pesava perché le piaceva molto studiare e avrebbe
preferito studiare piuttosto che spalmare colla su pezzetti di fintapelle.
Poi, cominciarono i bombardamenti e madre e figlia si rifugiarono nel
paese dove era nato il padre. Vivevano in una sola stanza, con i pochi
mobili che si erano portate dietro tutti ammucchiati; la madre andava
a lavorare nei campi con i contadini e veniva pagata in natura: un pezzo
di pancetta o di salame, qualche uovo, un po’ di farina; insomma
la vita era grama, ma si pativa meno la fame che in città. Venne
il tempo della mietitura e fu allora che la bambina sentì parlare
degli spigolatori: gente che andava nei campi, dove il grano era stato
già mietuto, a raccogliere le spighe restate a terra. Così
lei intravide la possibilità di procurarsi la materia prima per
fare il pane. Si confezionò lei stessa un sacchetto di tela per
riporvi le spighe e, via per i campi a raccogliere quei meravigliosi
contenitori di chicchi di grano.
Si può affermare che i suoi sforzi furono premiati: raccolse
un grande sacco di spighe e quando lo portò nell’aia di
un contadino amico dove si trebbiava, i trebbiatori forse si commossero
perché rovesciarono nel suo sacco anche il contenuto del telone
che ricopriva il fondo del carro che aveva trasportato i covoni e lei
si ritrovò con parecchi chili di grano trebbiato che, a suo tempo,
fu trasformato in farina e poi in pane. Da quel momento, lei e sua madre,
non patirono più la fame perché, come diceva sua madre,
almeno il pane c’era, magari solo pane e radicchi, ma tanto bastava
alla sua fame giovanile.
Quella bambina è nata il due aprile dell’anno millenovecentotrentuno
e ciò vuol dire che ha passato la sua infanzia e l’inizio
dell’adolescenza in tempo di guerra e ciò ha influito su
tutta la sua vita: il terrore dei bombardamenti o delle rappresaglie
tedesche, la fame patita in città, la scuola abbandonata e mai
più ripresa, i racconti del padre tornato sì vivo da un
lager tedesco, ma con i nervi a pezzi, hanno profondamente inciso nel
suo carattere e in tutta la sua vita, tanto che ancora oggi, per sentirsi
sicura, deve avere dispensa e frigo sempre pieni; inoltre prova una
profonda avversione per ogni tipo di guerra e ogni forma di violenza.
Ma forse le è restato anche qualche cosa di positivo: la forza
di affrontare la vita a testa bassa, giorno per giorno, senza alzare
gli occhi, ancora in cerca di spighe che l’aiutino ad arrivare
in fondo con dignità.