Effetti di blu inglobati in bolle di amnesia
Monologo di Aloisa Alzheimer
Francesca D’Arrigo
Con momenti all'indietro rientrò alla stazione.
Fingono tutti gentilezze spropositate.
Fingono con banali parole di cortesia «buongiorno o buonasera»,
ma nel farlo li vedo allungare lo sguardo nel mio appartamento. Sono
curiosi, vogliono vedere, vogliono sapere. Vorrebbero domandare tante
cose della mia vita: chi sono, da dove provengo, perché sono
lì, dove vorrei essere.
Chi sono io?
Chi sono loro!
Indiscreti e chiassosi intriganti, emettono un tale volume di ciarle
e di frastuono che spesso, mentre penso a fatti miei o tento di organizzare
le mie giornate, dimentico tutto, mi confondo, incespico.
Sono appena le sei e trenta o forse sono le sette e trenta e, col pretesto
di esaminare la cassetta della posta, hanno già iniziato con
l’andirivieni e gli sproloqui incessanti. Parlare di questo, di
quello, di quell’altro.
Devo allontanarmi, isolarmi e cercare il silenzio, la pace, la memoria.
Devo allontanarmi, muovermi il più possibile distante da qui.
Porterò con me la sacca da lavoro.
Mi rilassa lavorare a maglia, mi ha insegnato nonna Margareta nei lunghi
pomeriggi senza tivù. Realizzo scarpette di lana o di cotone
per i miei nipotini. Un giorno andrò a trovarli e gliele porterò,
abitano lontano, i miei figli abitano lontano. Sono andati via. Prima
di andare hanno pensato a me, hanno comprato quest’appartamento
nel quale sopravvivo dignitosamente della mia pensione.
Forse andrò ai giardinetti, mi fermerò lì se ci
sarà disponibile un posto discreto per sferruzzare o cercherò
un altro spazio.
Una volta avrei scelto di portare con me un libro, oppure no, non l’avrei
scelto ne avrei preso uno qualunque o molti. Mi piaceva leggere, divoravo
pagine su pagine, degustavo pensieri e storie, mi nutrivo curiosa della
mia curiosità, fame insaziabile, mai del tutto compiaciuta.
Devo allontanarmi, isolarmi e cercare il silenzio, la pace, la memoria.
Devo allontanarmi, muovermi il più possibile distante da qui.
Porterò con me la sacca da lavoro.
Mi rilassa lavorare ai ferri.
Porto con me quel libro che avrei voluto leggere, quel libro di cui
non ricordo né il titolo né l’autore. Dove l’avrò
messo?
Dove sono?
Lungo questi binari cresce tanta erba.
Tra pozze di verde intenso e acerbo svicolano, arroganti, sparuti fiori
di campo.
Sfarfallano, intorno a me, sfrontati insetti che intralciano attimi
sonnolenti, su questa panca, mentre veglio indugiando.
Accompagno lo sguardo sul riverbero delle rotaie e mi chiedo se i vuoti
di memoria timbrano i suoni, o hanno omesso d’obliterare il biglietto,
o determinano un colore.
È in partenza il treno delle 20.35. Il treno delle 20.35 è
partito.
Sono senza scarpe, ho dormito per tanto tempo o forse l’ho creduto
o forse l’ho sognato o mi sono illusa. Non lo ricordo.
Mi ha svegliato il vento e lo stridio dei freni della motrice.
Mi sono destata e non sapevo: dove ero, da dove venivo, com’ero
arrivata, dove sarei andata.
È in arrivo il treno delle 23.05. Il treno delle 23.05 è
arrivato.
C’è una signora, tocca terra per prima poi allunga la
mano ai figli, i miei figli, che scendono sbadigliando affaticati a
causa del viaggio. Si portano verso lo spiazzo e salgono sul taxi per
tallonare strade su strade in catene di smog.
Sono alla stazione.
Le carrozze si dirigono al deposito e gli altri, quelli seduti nelle
panchine di fianco alla mia, vanno a raggiungerle.
Ma io stanotte resto qui a masticare foschia e immagini sfocate che
si ingarbugliano con accordi invisibili di riflessi scordati.
Passeggera all’arrivo di un’idea con annotazioni smorzate
e reminiscenze parziali di collegamenti intrecciati o confluenti, o
che mutano direzione nello scambio d’uscita.
Resto qui, in compagnia di passi fermi, di una biglietteria chiusa e
di un morbo che mi accomuna con insegne luminose intermittenti fra effetti
di blu inglobati in bolle d’amnesia, un bagaglio inutile abbandonato
nell’angolo.