PREMIO LETTERARIO PANCHINA

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EDIZIONE 2011
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Umarell
Katia Brentani


La bicicletta è sdraiata per terra, come al solito, e la ruota ingombra il passaggio.
Adesso torno in casa e scrivo un bel biglietto agli studenti del terzo piano. La bicicletta è la loro, di chi esattamente non lo so, la usano tutti a turno, e non solo quella. Sarà rubata e comprata in via Zamboni per pochi euro.
Scrivo sul biglietto: “Questo è un condominio rispettabile e le bici devono essere messe negli appositi porta bici”. E lo attacco con lo scotch al sellino, così non possono dire che non l’hanno visto.
Per colpa della bici e degli studenti ho perso l’autobus per andare in centro e mi tocca aspettare almeno un quarto d’ora alla fermata.
Per fortuna che non è ancora freddo.
Alla fermata a quest’ora non c’è nessuno. Gli impiegati arrivano più tardi e gli studenti, non ne parliamo. Quelli stanno svegli quando dovrebbero dormire. Alla mattina vedi certe facce! E poi si meravigliano se non passano gli esami. Per fortuna sarò morto quando diventeranno dottori quelli lì.
Arrivo al bar in ritardo e l’Armando si è già preso l’unica copia de Il Resto del Carlino. L’Armando legge anche i necrologi e tutte le inserzioni “A.A.A. offresi russa, molto sola in cerca di compagnia, brasiliana con saudade cerca amico generoso per consolarla”.
Fino a mezzogiorno non lo molla. Tanto vale andare in piazza Grande a contare i piccioni e ascoltare il Monari e il Tura che discutono di politica. Finiscono sempre per litigare: il Monari lavorava alla Minganti come operaio ed era sindacalista, il Tura è un vecchio nostalgico del Musso.
Quando arrivo i toni sono già alti e c’è chi cerca di smorzarli e chi, invece, si diverte a riscaldare il clima.
Siamo già passati al dialetto stretto: «cert che un con la tu boza». Certo che uno con la tua testa.
Finirà come al solito: arriverà la moglie del Tura di ritorno dalla spesa al mercato di via Orefici e pronuncerà queste semplici parole: «andem a cà». Andiamo a casa.
Il Tura deve avere un debole per i dittatori, l’Elvira al Musso poteva dargli lezioni.
Mi distraggo a guardare i bambini che danno da mangiare ai piccioni.
Certo che oggi le mamme sono più belle di quelle di una volta. Non sembrano neppure mamme, ma modelle e anche i loro bambini sono sempre vestiti come se dovessero posare per un servizio di moda.
Dico qualcosa a un pargoletto biondo dalle guance paffute che mi guarda stralunato e continua a gettare granaglie ai piccioni e sulle mie scarpe.
«Non sa il dialetto» si scusa, la madre rincorrendolo.
Veramente ho parlato in italiano, ma immagino vi siano problemi a capirlo, visto che oggi tutti parlano inglese: briefing, brunch, slide. Come ho imparato questi termini? Non c’è impiegato che passi da piazza che non li pronunci almeno una volta al giorno. E io con i termini stranieri ho fatto una certa pratica in gioventù quando ero detenuto in un campo di prigionia in Germania: achtung, caput, verboten.
L’orologio della Torre d’Accursio batte dodici rintocchi: e ora di tornare a casa. Gianna, mia moglie, se arrivo in ritardo per il pranzo si lamenta, dice che si fredda tutto.
Salgo sull’autobus colmo di alunni delle elementare con al collo cordelle con le quali tentano di strozzarsi a vicenda.
Quando andavo a scuola io non ci si poteva alzare dal banco, si marciava al passo dell’oca e se parlavi non autorizzato il maestro ti bacchettava sulle mani con il righello.
Adesso è già molto se gli alunni non ti mandano a cagare e i genitori non ti aspettano fuori dalla scuola per picchiarti.
Faccio presente che ho una certa età e guadagno un posto a sedere, anche se devo alzarmi almeno due fermate prima per raggiungere l’uscita.
Davanti al portone incontro uno studente del terzo piano: quello alto, con i capelli arruffati e il raffreddore perenne.
«Hai visto il biglietto? – dico - la bicicletta non si lascia per terra».
«L’ha già raccolta la Carlotta» risponde, pronto a svignarsela.
«Guarda che avverto l’amministratore», minaccio.
Il ragazzo si infila lo zainetto sulle spalle.
“Certo che gli umarell” lo sento borbottare.
“Umarell a chi?” urlo. Lui accelera il passo. Ai miei tempi uno così lo riempivano di sberle.
Scuoto la testa e salgo le scale in fretta, sono in ritardo. Quando apro la porta Gianna urla: “Dove sei stato, alla Sampira? Si è freddato tutto, sei proprio un umarell!”.



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