PREMIO LETTERARIO PANCHINA

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Un salto nel buio

di Gabriele Astolfi

 

Frino non aveva scuse, sapeva dall’inizio come sarebbe andata a finire. E di questo non doveva ringraziare altri che se stesso.
Fin dal principio avrebbe potuto tirarsi indietro, troncare sul nascere l’impulso che l’aveva trascinato sull’orlo dell’abisso. Persino un istante fa, quando aveva affrontato, gradino dopo gradino, la scala più dura della sua vita di ragazzo. Sapeva che, arrivato in cima, sarebbe venuto il momento di scendere. Di scendere senza prendere le scale.
Se la portava dentro da giorni, quella spina di carne, come una riottosa cisti maligna che, dopo essere stata covata e nutrita, non chiedeva che di essere recisa. Perché questa è la natura di certe escrescenze, nutrirsi per poi morire.
E il momento era venuto, l’attesa era finita. Con tutti, di sotto, a interrogarsi se chi era stato capace di un tale passo avrebbe avuto anche il coraggio, o la follia, di continuare col secondo. Era certo che dabbasso si auguravano che ci ripensasse e tornasse indietro, visto che glielo gridavano, ma lui non avrebbe dato loro la soddisfazione. Non sarebbe passato da vigliacco.
Soprattutto, cosa a cui teneva quanto a nessun’altra, non si sarebbe fatto rider dietro dal fratello, che l’aveva messo in guardia dall’imbarcarsi in simili imprese. Dal fare, guarda un po’, certi salti nel buio. “Se vai lassù, lo sai, poi devi buttarti.“ gli aveva detto in tono di sfida, sicuro che mai e poi mai avrebbe avuto il fegato di andarci “La gente, una volta che sei su, si aspetta che tu faccia ciò per cui sei salito. Magari ti grida di lasciar perdere, che non ne vale la pena, ma in realtà vuole che tu, quel salto, lo faccia eccome. Che figura ci fai se ti tiri indietro? Dammi retta, non salire. Se però sali, poi devi buttarti.”
Da quando in qua i fratelli minori danno consigli ai maggiori? Semmai è il contrario. Ma Frino di consigli non ne dava; non era abbastanza in gamba. Non aveva la stoffa, e perciò non poteva fare da maestro. Sarebbe stato come chiedere di vino a un astemio, o di sesso a un eunuco. La stoffa, se uno non ce l’ha, non se la può dare, né può fingere di averla; il fegato nemmeno. Ma stavolta avrebbe preso per mano il destino.
Però doveva decidersi. Più aspettava a buttarsi e più montava la paura. L’attesa del coraggio necessario a lanciarsi nel vuoto gli stava asciugando il sangue. A quelli di sotto, invece, sembrava aver asciugato il cuore. Infatti ora, accanto a chi continuava a urlargli di scostarsi, di tirarsi indietro, i più gli gridavano di gettarsi, di farla finita, che si erano stufati. Era chiaro che avevano fretta, ognuno coi propri impegni da sbrigare, mentre dabbasso, per colpa sua, era tutto bloccato.
Il coraggio però continuava a farsi attendere. E, di conseguenza, a venir meno sempre di più la pazienza della platea ai suoi piedi.
A un tratto il ragazzo in bilico si accorse che un paio di soggetti stavano salendo la scala. Lo venivano a prendere per portarlo giù. A quel punto si decise. Fece un passo avanti e abbracciò il vuoto, e dopo l‘istante più lungo della sua esistenza fu preso nella morsa di un gelido abbraccio.
Quando riemerse dall’acqua, Frino vide il suo pubblico che gli inveiva contro bagnato fradicio. Nell’attesa spasmodica che si tuffasse dal trampolino più alto, si era avvicinato alla piscina, apostrofandolo e schernendolo con sempre maggior veemenza, perché si decidesse. Quel tuffo a gambe larghe, ultima prova, sia pur non obbligatoria, ma a cui non aveva voluto sottrarsi, del corso di nuoto a cui si era iscritto col fratello, aveva fatto il resto. Risultato, innaffiata imprevista per i compagni di corso che, ormai quasi asciutti, si erano accostati al bordo della piscina con la certezza che non si sarebbe mai tuffato, e degli iscritti al turno successivo, che, parimenti asciutti e con la stessa certezza, non vedevano l’ora di cominciare la lezione.
Frino però, contro ogni pronostico, alla fine ce l’aveva fatta a vincere la paura del vuoto. L’attesa del salto, per lui, non era stata vana.

 

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