PREMIO LETTERARIO PANCHINA

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Passim, premio panchina

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123 pp. - 12 euro


EDIZIONE 2010
- Racconti

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La foto sul cuscino

di Giuliano Rusca

E' una mattina di novembre e mi alzo dal letto con poca voglia di andare a lavorare. Me ne starei volentieri a poltrire sotto le coperte, invece devo andare, oggi sarà una giornata dura e piena di appuntamenti.
L'ennesima litigata con mia moglie mi ha rubato tutta l'energia e quel poco di entusiasmo che conservavo per queste giornate buie e cupe. Novembre a Milano è umido e malinconico. Il cielo è quasi sempre nuvoloso, piove spesso e quest’acqua sottile e fitta raffredda il mio animo grigio. Guardo fuori dalla finestra: gli alberi stanno perdendo le ultime foglie, il prato della mia piccola casa a schiera è intriso di umidità, coperto da un indistinto strato di nebbia.
Sul letto c'è lei, mia moglie. E’ addormentata, sembra tranquilla e incurante del fatto che da mesi tutte le sere litighiamo senza un motivo ben preciso. Ho la sensazione che si sia rotto qualcosa tra di noi. La relazione con lei non funziona più a causa dei suoi e dei miei problemi di comunicazione. Non siamo più in grado di riorganizzazione le nostre priorità. Ormai diamo tutto per scontato e siamo presi, e non è una frase fatta, dalla solita routine. Non rinnoviamo da un pezzo il nostro rapporto, nessun gesto d’affetto, nessun atto d’amore, ormai la nostra vera relazione appartiene al passato. Sono preoccupato. Sto diventando sempre più aggressivo, quasi violento, sia nelle parole sia nei comportamenti. Ieri lei mi ha confessato di avere addirittura paura di me. Diamine, le faccio paura! Dice che ci stiamo distruggendo e questo le procura dolore, un dolore interiore profondo che non riesce più a sopportare. Cosa faremo?
Fa freddo, sento freddo dentro. Sbatte una persiana. Il vento mi riporta fuori da questi pensieri che mi rattristano. Faccio una doccia bollente, mi preparo un caffè, mi vesto e via in automobile per lasciarmi tutto alle spalle.
Mentre giro alla prima curva, vedo sul marciapiede la vecchietta che abita proprio vicino a casa mia. So che si chiama Maria. Porta tra le mani un mazzolino di fiori freschi. Intuisco che sta andando al cimitero. Suo marito è morto qualche mese fa e lei, secondo tradizione vedovile, tutte le mattine si reca a “fargli visita”.
Il suo matrimonio non deve essere stato molto felice. Anche se non amo spettegolare dei fatti altrui, parlando con gli abitanti del vicinato ho saputo che suo marito aveva la brutta abitudine di alzare le mani e lei per questo è finita al pronto soccorso un paio di volte. Nonostante l'aspetto molto gracile e dimesso, è riuscita a sopravvivergli, mentre lui, dopo una lunga e penosa malattia, se n'è andato: qualche volta la giustizia divina fa il suo dovere.
Non sono in ritardo, così decido di chiederle se vuole una passaggio. Sembra non aspettare altro e accetta più per la voglia di chiacchierare che per evitare la lunga camminata verso il campo santo. Sale in macchina lentamente, mi sorride e mi ringrazia:
“Grazie Giuliano, non vorrei farle perdere del tempo, ma oggi sono un po' stanca e accetto volentieri il passaggio”. Il suo modo confidenziale ma estremamente rispettoso di parlarmi mi porta ad iniziare una conversazione con una domanda banale:
“Come va signora?” non ci conosciamo molto bene, anzi non ci conosciamo per niente, ma ritengo doveroso chiederle un po' del suo vivere quotidiano.
Non vedeva l'ora. “E come vuole che vada. Sono sola. E sono triste senza il mio Giovanni. Al mattino non ho neanche più voglia di alzarmi, tutto quello che faccio lo faccio malvolentieri”. Cerco di assecondarla con un'altra domanda scontata: “Immagino debba essere pensoso rimanere soli alla sua età?”. La signora Maria vuole sfogarsi un po':
“Lei non immagina quanto mi manca la voglia di vivere. Faccio tutto quello che devo fare, ma come un automa. Le mie figlie mi sgridano, mi dicono che devo reagire, ma per me la vita non ha più sapore. Dicono che sia la solitudine ed io senza il mio Giovanni sono sola. Non so se lei riesca a capirmi, ma preparare da mangiare per me e nessun altro che senso ha? Quando c'era lui era tutta un'altra cosa!”. Sono esterrefatto, suo marito le manca! Ma come è possibile? Un mostro violento che osava picchiarla, ora le manca. Dovrebbe essere felice, ora è finalmente libera e invece no, è triste e dispiaciuta di questa assenza. Sembra quasi che la mancanza anche di un essere così brutale, sia peggiore del dolore psicofisico che le provocava. La guardo meglio e vedo la tristezza vera nei suoi occhi.
Ha i lineamenti delicati, il naso piccolo, la bocca ben disegnata e gli occhi chiari e luminosi. Da giovane deve essere stata anche una bella donna, mi vien da pensare. Oggi sul suo viso c'è la tristezza profonda, ora è una vecchia bambola senza più anima.
Continua a parlare e a raccontare: “Era proprio un brav'uomo il mio Giovanni. Lei non sa quanto ci volevamo bene. Anche la sua gelosia era dovuta tutta a quel suo terribile male”. Ecco scoperto il motivo per il quale alzava le mani: la stupida classica gelosia, quella che acceca anche gli occhi degli uomini più innamorati. Per lei, la gelosia del marito era dovuta ad una malattia, una malattia vera che infine lo ha ucciso. Vorrei spiegare alla signora Maria che la gelosia, anche se al tumore può essere paragonata, con il tumore non c'entra proprio nulla, ma ci rinuncio, lei ormai ha fatto pace con se stessa. Mentre l'ascolto, penso quanto incredibile sia l'animo umano che per sopravvivere si auto convince e trasforma la realtà più evidente in fantasie a proprio uso e consumo. Maria ha trasformato il ricordo di suo marito salvando il loro amore, rendendolo puro ai suoi occhi.
Siamo ormai davanti all'ingresso del cimitero, ma si deve essere accorta che il suo racconto mi avvince, così invece di scendere dall'automobile continua a raccontare:
“Quando era malato, non mi faceva pesare la sua sofferenza. Sopportava con coraggio il dolore. Nonostante la malattia, cercava di essere presente, mentalmente intendo. Mi faceva compagnia. Le nostre giornate erano diventate, per assurdo, più serene: si mangiava insieme, si leggeva qualche pagina di un libro, si guardava la televisione e la sera si andava a dormire insieme. E il letto non era vuoto, c'era lui che si addormentava tenendomi per mano. E poi parlavamo. Parlavamo di tutto, voleva che gli raccontassi ciò che facevo nei minimi particolari, voleva sapere dei nostri nipotini, dei nostri figli, dei nostri vicini. Sa, a volte mi ha chiedeva anche di lei, Giuliano” mi fissa e fa una pausa, poi riprende:
“Mi chiedeva di lei e di sua moglie. Mi chiedeva di voi tutte le volte che la sentiva urlare, imprecare e sbattere le porte e poi andarsene con la macchina facendo stridere i pneumatici sull'asfalto. Io rispondevo che erano solo litigi di assestamento, che lei è una brava persona e che mai avrebbe fatto quello che anni prima aveva afflitto me. Lo rassicuravo su questo e lui mi diceva che dovevo aiutarvi, che dovevo parlarle di lui, dei suoi errori e di quando l'amore sia conoscere ciò di cui la persona vicina ha bisogno e cosa ci manca per essere interi.”
Sono bloccato sul sedile della mia bella auto, non riesco a parlare e a rispondere e allora lei continua: “Ora quando vado a letto, per non sentirmi sola, metto la sua foto sul suo cuscino, gli do un bacio e gli dico buona notte Giovanni, mi giro dall'altra parte per non vedere il vuoto, per avere l'illusione che lui sia ancora lì vicino a me”. Ora sono davvero commosso, il pensiero di Maria che si addormenta con la foto del marito sul cuscino, mi intenerisce quasi fino alle lacrime. La guardo ancora e nei suoi occhi umidi vedo l'amore, quello vero, quello che deve avere accompagnato tutte le sue giornate, quello che deve averle dato forza nei momenti più duri e quello che le ha fatto trasformare un mostro in una persona che alla fine ha saputo darle un po’ di “serenità”.
Mi pongo delle domande sul tempo e sulla sua implacabilità: finalmente si erano ritrovati, infondo tutto ciò che chiedevano era la possibilità di ricominciare per invecchiare insieme, per scambiarsi quella tenerezza negata in gioventù.
Si è accorta di aver colpito nel segno e che sto pensando alla mia vita, alla mia storia, così mi ringrazia e scende dalla macchina:
“Torni a casa Giuliano, torni da sua moglie e le dica che tutte le cose che le ha detto ieri sera erano solo parole d'amore sbagliate dette ad alta voce. Vada a casa Giuliano, lei che può, ci vada in fretta, io non ho più nessuno che mi aspetta. Buona giornata Giuliano e grazie anche a nome del mio Giovanni.”
Mesto la saluto e l'accompagno con lo sguardo verso l'ingresso del cimitero. Prima di entrare si gira verso di me, mi sorride e dal suo labiale leggo le parole: “Vai a casa”.
Metto la freccia, faccio inversione e mi dirigo verso casa con la speranza di ritrovare mia moglie, di abbracciarla e di confessarle che l’amo ancora.

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