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Il
ratto
di Wolfango Horn
L’avevano rinchiuso nella cripta del convento,
in catene, dopo averlo sottoposto a tre tratti di corda, che gli avevano
slogato le spalle, e al tormento del fuoco. I suoi piedi, spalmati di
lardo e avvicinati alle fiamme erano martoriati e piagati, ma non aveva
confessato.
L’inquisitore aveva pronunciato esorcismi e preghiere, ma lui
aveva negato, con un filo di voce, qualsiasi patto con i demoni e aveva
rigettato l’accusa di negromanzia.
Poi l’avevano abbandonato, incatenato, alla sua sofferenza e tutti
se ne erano andati in chiesa, per la celebrazione della missa maior,
alla fine della quale era prevista la sua esecuzione in piazza. Condannato
al rogo per negromanzia e patti con il demonio.
La cella aveva una robusta porta sbarrata dall’esterno con un
chiavistello, ma il legno era sbrecciato in più punti e, verso
il pavimento, c’era una apertura che avevano usato per passargli
la misera zuppa di pane e acqua.
Doveva assolutamente raggiungere la chiesa, lì avrebbe riacquistato
i suoi poteri. Decise di trasformarsi in un ratto, era il modo più
veloce per attraversare le strade e la piazza che lo separavano dalla
vendetta.
Chiuse gli occhi, liberò l’energia: sentì il corpo
annullarsi, mentre una vibrazione percorreva la colonna vertebrale dalla
base fino alla cervice. Non pensava, né sognava, mentre sentiva
il suo corpo fluttuare. La trasformazione prese più tempo del
solito, la sua forza stava scemando: le torture lo avevano indebolito
e, se non si fosse impossessato della reliquia conservata nell’altare,
compiere quelle trasmutazioni del suo corpo, che in passato riusciva
a compiere in un batter d’occhio, sarebbe davvero diventato troppo
lungo e faticoso.
Finalmente si ritrovò nel corpo agile e flessuoso di un grosso
ratto nero, uscì di scatto dalla fessura della porta, salì
a grandi balzi l’umida scala che portava al chiostro e, sotto
la livida luce del cielo mattutino, si lanciò a perdifiato lungo
l’acciottolato dei portici che costeggiavano il convento. Più
in fretta! Più in fretta! Aveva poco tempo, ormai. Ansimava ancora
affannosamente, quando finalmente arrivò nella piazza e vide
ergersi la chiesa di fronte a lui: ancora pochi balzi e si sarebbe trovato
in cima alla scalinata. Ormai era fatta, era a pochi passi dalla vittoria:
per un ratto, sottrarre la piccola reliquia del dito di San Giovanni
Battista, conservato nella nicchia dell’altare, sarebbe stato
facile.
Maddalena stava correndo, era in ritardo per la funzione, non voleva
che le amiche, come al solito, la prendessero in giro perché
sbagliava sempre orario…
Era molto fiera del suo abito buono: corpetto di seta e una corta gonnellina
a balze, con eleganti orli ricamati da cui spuntavano due gambe ossute,
calzettoni bianchi e, la cosa che la rendeva più felice, due
magnifiche scarpette nuove di vernice nera.
Salì i primi due gradini della scalinata prospiciente la chiesa
poi, con la coda dell’occhio, vide un movimento, qualcosa di nero
che si muoveva alla base della rampa.
Esitò solo un attimo, girandosi a guardare: un enorme ratto nero,
drizzato sulle zampe posteriori, la stava seguendo e sembrava volesse
salire fino al portone della chiesa.
Maddalena incontrò i penetranti occhietti della creatura che
la fissavano, neri e cattivi come la notte senza luna. Intravedeva il
piccolo cuore dell’animale battere all’impazzata nel petto.
Fu un attimo. Maddalena si voltò, e diede un calcio a quella
bestia ributtante. Poi un altro, e un altro ancora.
Il grosso ratto si rovesciò sul dorso, squarciato da quei calci
inaspettati. Maddalena osservò le convulse contrazioni della
morte, poi la rigida immobilità. Si inumidì un dito con
la saliva e lo passò sulla striscia di sangue scuro che sporcava
le lucide scarpette di vernice nera. Salì in fretta i gradini
della scalinata, faticò un po’ ad aprire il pesante portone,
poi sgattaiolò all’interno della chiesa cercando di non
farsi notare. Era fortunata, la messa stava iniziando in quel momento:
le sue amiche non l’avrebbero presa in giro.
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